La  Corte di Cassazione penale con sentenza n. 27766 del 5.06.2017 è ritornata ad affrontare il tema della scarcerazione ai fini della tutela del “diritto ad una morte dignitosa”.

Ciò che ha suscitato grande discussione è stato il fatto che ad adire la Suprema Corte, con domanda di differimento dell’esecuzione della pena ex art. 147 n. 3 cod.pen. ed in subordine di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47- ter comma 1-ter, legge 26 luglio 1975, n. 354, è stato Totò Riina, boss dell’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, in carcere da più di 24 anni in regime di 41 bis.

L’art. 41 bis ord. penit. predispone infatti un regime detentivo speciale per la lotta alla criminalità organizzata, il c.d. “carcere duro”.

Carattere peculiare è la sospensione dell’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati, prevedendo l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, la limitazione della quantità dei colloqui e dei luoghi in cui questi si svolgono, nonchè dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, la limitazione della permanenza all’aperto.

Totò Riina ha proposto ricorso appellandosi invece all’art. 147 n.2 c.p, il quale mira ad evitare che l’esecuzione della pena avvenga in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità.

Vengono in rilievo infatti, trattando questo tema, tre principi costituzionali, di cui il giudice deve tener conto: il principio di eguaglianza, il principio secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e quello per cui la salute è un diritto fondamentale.

Gli ermellini accogliendo il ricorso hanno annullato l’ordinanza n. 299 del 20 maggio 2016 del Tribunale di Bologna con la quale era stata respinta la domanda di Totò Riina, ritenendo inesistente l’incompatibilità tra infermità fisica del boss e la detenzione in carcere, dato che le sue patologie venivano monitorate e fronteggiate anche attraverso ricoveri in ospedale.

Il collegio ritiene che non emerga dalla decisione del giudice in che modo si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena «il mantenimento il carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa», che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili».

La Cassazione ritiene di dover affermare “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente” che deve essere assicurato al detenuto.

Inoltre, ferma restando «l’altissima pericolosità» e l’indiscusso spessore criminale» il tribunale non ha chiarito come tale pericolosità «possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico».