Come ormai noto, il primo maggio 2015 veniva introdotta la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, comunemente detta NASPI (D.Lgs. n. 22/2015).

Si tratta di una prestazione che viene erogata a titolo di indennità a quei soggetti che hanno involontariamente perso il posto di lavoro, su domanda degli stessi, con lo scopo di fornire sostegno al reddito dei lavoratori subordinati che hanno perso la propria occupazione.

Quali sono i requisiti per accedere alla NASPI?

  • lo stato di disoccupazione involontaria;
  • possedere determinati requisiti contributivi, cioè aver versato sufficienti contributi ai sensi di legge (13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione);

Il requisito lavorativo, invece, cioè aver maturato sufficienti giornate di lavoro effettive (30 giornate negli ultimi 12 mesi) non trova più applicazione con gli riguardo agli eventi di disoccupazione che si verificano dopo il 1 gennaio 2022 (Legge di Bilancio 2022).

In alternativa allo status di disoccupato, possono ricorrere anche le seguenti fattispecie:

  • risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ai sensi della L. 604/1966 (procedure conciliative);
  • dimissioni delle lavoratrici durante il periodo tutelato della maternità;
  • dimissioni per giusta causa.

Se da un lato il sistema della NASPI funge indubbiamente da strumento assistenzialista posto a tutela del dipendente, dall’altro però lascia spazio ad alcune condotte che si rivelano estremamente problematiche per i datori di lavoro.

Vediamo alcune casistiche che potrebbero concretamente verificarsi sul luogo di lavoro.

 

LE DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA “PRETESTUOSE”

Come anticipato, in caso di dimissioni volontarie per giusta causa, il lavoratore acquisisce comunque il diritto a percepire la NASPI.

Si tratta di quei casi in cui una situazione contingente ed indipendente non permette più al lavoratore di proseguire nella prestazione lavorativa, e ciò per fatti a lui non imputabili, al punto tale da indurlo a rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa. In tali casi, dunque, il legislatore valuta la condotta dimissionaria del dipendente come una condotta obbligata dal comportamento di altro soggetto esterno e dunque considera lo stato di disoccupazione come involontario.

Queste le principali fattispecie di dimissioni per giusta causa: mancato pagamento della retribuzione, molestie sessuali sul luogo di lavoro, mobbing verticale o orizzontale, ingiurie da parte del superiore gerarchico, grave demansionamento, ecc.

Si specifica sul punto che, in caso di mancato pagamento del salario, il lavoratore non può legittimamente dare le dimissioni per giusta causa se si tratta di un evento estemporaneo ed isolato, dovuto magari ad un momento di difficoltà economica dell’azienda. Bensì, per costante giurisprudenza, deve trattarsi di un fatto reiterato  e grave: indicativamente si fa riferimento alla mancata erogazione di ben 3 mensilità consecutive.

Pertanto, il lavoratore non può pensare di dimettersi per giusta causa in caso, per esempio, di un semplice ritardo nei pagamenti (caso isolato). Le dimissioni per giusta causa ricorrono solo in presenza di un’inosservanza del datore rispetto ai suoi obblighi contrattuali talmente grave da non consentire la prosecuzione del lavoro durante il periodo di preavviso.

Ove non vi sia tale presupposto e non vi sia la necessità di interrompere immediatamente il rapporto di lavoro, le dimissioni per giusta causa saranno solo pretestuose. In tal caso il datore di lavoro dovrà comunque accettare le dimissioni ricevute, ma potrà contestare la sussistenza della giusta causa e trattenere in busta paga il mancato preavviso del dipendente. In sostanza il datore di lavoro, non riconoscendo la giusta causa, tratterà il recesso del lavoratore come un caso di dimissioni volontarie rassegnate senza il rispetto del preavviso.

Da qui potrebbe poi instaurarsi un contenzioso avanti al Giudice del lavoro.

 

L’ASSENZA INGIUSITIFICATA PROLUNGATA

È pacifico che anche il licenziamento disciplinare, in quanto fattispecie riconducibile alla disoccupazione involontaria, dia accesso alla NASPI. Tale meccanismo, tuttavia, può portare al compimento da parte del lavoratore di alcuni comportamenti scorretti al fine di essere licenziato e di poter percepire la NASPI.

Si tratta del fenomeno di quei lavoratori che, senza preventivamente avvisare o giustificare, smettono di presentarsi sul posto di lavoro (cd. lavoratore assente ingiustificato); trattasi di dipendenti che vogliono interrompere il proprio rapporto di lavoro, ma non intendono dimettersi per non perdere il diritto alla NASPI e, pertanto, sperano che sia il datore di lavoro a licenziarli.

Per la Cassazione l’assenza ingiustificata non può essere equiparata ad un atto di dimissioni, ma ad un mero illecito disciplinare.

Ecco allora come dovrà agire il datore di lavoro: poiché la giurisprudenza è restia a considerare la grave assenza ingiustificata come “dimissioni volontarie implicite” (cd. dimissioni per fatti concludenti o dimissioni tacite), l’unica procedura per il datore di lavoro è appunto la via del licenziamento disciplinare. Il datore di lavoro cioè non considererà l’assenza come tacito atto dimissionario, ma avvierà un procedimento disciplinare che si chiuderà col licenziamento.

Di conseguenza il dipendente conserverà il diritto a percepire la NASPI (nonostante la causa del licenziamento sia a lui imputabile), ma il datore di lavoro potrà in qualche modo recuperare i costi sostenuti: l’azienda, infatti, potrà trattenere l’indennità di mancato preavviso ed eventualmente procedere con una richiesta di risarcimento del danno per condotta contraria a buona fede, comprensiva non solo dei costi sostenuti per la riorganizzazione aziendale (ricerca e assunzione di un nuovo dipendente) ma anche della tassa di licenziamento versata all’Inps.