Ciclicamente la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla questione delle offese espresse dagli utenti sui social network, fenomeno ormai diffusissimo, specie in periodi ad alto rischio di conflittualità sociale, come quello attuale.

Nonostante sia ormai pacifico che il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. possa essere commesso anche tramite strumenti informatici (cd. diffamazione aggravata e art. 595 co. 3 c.p., cfr. Cass. Pen. sent. n. 5358/2018, Cass. Pen. sent. n. 24212/2021), la Suprema Corte  si è nuovamente espressa in materia di diffamazione a mezzo social, in particolare soffermandosi sul problema della riconducibilità della condotta penale esercitata online al soggetto intestatario dell’utenza.

Orbene, la Corte di Cassazione Penale con sent. n. 4239/2022 ha stabilito che l’accertamento dell’indirizzo IP dell’utenza telefonica non costituisce prova imprescindibile ai fini della condanna dell’utente per diffamazione, in quanto è sufficiente la individuabilità dell’autore tramite l’applicazione di criteri logici e massime di esperienza.

Ciò significa che colui che diffonde sui social network messaggi diffamatori, e dunque gravemente lesivi dell’altrui reputazione, potrà essere condannato anche a prescindere dall’accertamento dell’IP di provenienza del messaggio, purchè siano provati in giudizio elementi probatori adeguati, univoci e concordanti che dimostrino  la paternità dello scritto ingiurioso (condanna su base indiziaria).

Tali elementi probatori potranno essere i seguenti: il nome e il cognome associati all’account, il nickname, la vicinanza del soggetto all’argomento di discussione, il movente, il rapporto tra le parti e i loro trascorsi, la mancata segnalazione di furto d’identità dell’account, ecc.

La costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità si attesta sulla riferibilità della diffamazione anche su base indiziaria, a fronte della convergenza, pluralità e precisione dei dati” (Cass. sent. 4239/2022). La riferibilità della condotta all’imputato viene cioè desunta da molteplici dati logico-giuridici convergenti che non lascino residuare dubbi circa l’individuabilità dell’imputato, senza che sia indispensabile soffermarsi sulla verifica dell’utenza telefonica collegata all’IP.

Ne deriva che l’individuazione dell’IP e dei file di log-in non rappresentano l’unica prova certa che consenta di individuare e far condannare l’autore di scritti diffamanti, in quanto per la giurisprudenza di legittimità vari sono gli elementi utili ai fini dell’accertamento di responsabilità penale dell’imputato.

Orbene, poiché il Giudice può ricondurre un post diffamatorio al suo autore formando il proprio convincimento sulla base di criteri logici e massime di esperienza condivise, per l’imputato effettivamente colpevole sarà estremamente difficile evitare la condanna, in quanto gli elementi probatori utilizzabili dal Giudice sono molto numerosi e la strategia difensiva del mettere in dubbio la provenienza dell’offesa eccependo la mancata verifica del proprio indirizzo IP molto probabilmente non sarà sufficiente.

È, dunque, sul punto opportuno precisare che “il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero che si specifichi nell’esercizio del diritto di critica, va comunque contemperato con i principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 3 Cost”.

Il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è, pertanto, rappresentato dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico, abbia a fondamento un fatto, comunque, veritiero e che, in ogni caso, non si trascenda in gratuiti attacchi personali, lesivi della dignità morale del soggetto passivo” (Cass. Pen. Sent. n. 46132/2014; Cass. Pen. sent. n. 8824/2010).