Come noto, i contratti di locazione hanno una durata minima che è stabilita dalla legge. Al contempo è prevista per il locatore-proprietario la possibilità di negare il rinnovo del contratto alla prima scadenza dello stesso in una serie di ipotesi tassative. Con tale disdetta, dunque, il locatore può interrompere la prosecuzione del rapporto alla prima scadenza e riappropriarsi dell’immobile prima del termine ordinario (cfr. art. 3 Legge n. 431/1998).

Tra le motivazioni di disdetta anticipata ammesse dalla legge troviamo la seguente fattispecie: “il locatore intende destinare l’immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale proprio,del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado”.

Proprio su questa eventualità si è espressa recentemente la Corte di Cassazione, III Sez. Civ., con l’ordinanza n. 9851 del 28.03.2022.

 

Il caso.

Tizio, nei previsti termini di legge, inviava disdetta e successiva licenza per finita locazione alla prima scadenza agli inquilini Caia e Sempronio, motivando tale scelta con l’intenzione di adibire l’immobile in questione ad abitazione del proprio figlio.

Gli intimati si opponevano alla convalida di sfratto sostenendo che le motivazioni del locatore fossero prive di fondamento in quanto il figlio del locatore risultava già proprietario di un immobile abitativo nello stesso Comune, e sostenendo inoltre che uno dei conduttori versasse in precarie condizioni di salute.

I conduttori cioè contestavano la motivazione addotta dal locatore e chiedevano al giudice di valutarne la sussistenza in concreto.

La questione giungeva sino in Corte di Cassazione.

 

Le motivazioni e la decisione della Cassazione.

Il locatore-proprietario può legittimamente decidere di adibire l’immobile di sua proprietà ad abitazione del figlio nel rispetto dei termini e dei modi previsti dalla legge per la disdetta. Si ritiene sufficiente la semplice manifestazione di volontà del locatoreal fine di evitare il rinnovo del contratto, purchè la disdetta venga motivata, così dagarantire al conduttore una certa stabilità del rapporto contrattuale.

In ogni caso, secondo la giurisprudenza di legittimità, il giudice non è tenuto ad operare un equo contemperamento degli interessi delle parti né a vagliare la sussistenza in concreto del motivo addotto. Il giudice non ha il potere/dovere giuridico di vagliare la cd. validità sostanziale della disdetta.

Secondo consolidata interpretazione il diniego di rinnovo di cui alla L. 9 dicembre 1998, n.431, art. 3, lett. a), al pari dell’analogo istituto previsto dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 27, presuppone l’intenzione (ma non anche la necessità) del locatore di disporre dell’immobile per uno degli usi previsti dalla norma; l’intenzione deve essere seria, cioè realizzabile giuridicamente e tecnicamente, ma non è sindacabile nel suo contenuto di merito, non potendo il giudice interferire sull’utilità o sulla convenienza della divisata destinazione per il locatore ( Cass. 21/01/2020, n. 977; v. anche Cass. 18/05/2010, n. 12127)”.

Per legittimare il mancato rinnovo del rapporto da parte del locatore, è quindi sufficiente la semplice manifestazione di volontà di destinare l’immobile ad abitazione o a luogo di lavoro, propri o di un proprio familiare, senza ulteriori formalità, fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui del citato art. 3, comma 3, nell’eventualità in cui il locatore non abbia adibito l’immobile all’uso dichiarato nell’atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità (Cass. 10/12/2009, n. 25808)”. La disdetta non è sindacabile nel suo contenuto di merito.

La Suprema Corte, pertanto, rigetta le doglianze sollevate dagli intimati.