La parola “mobbing” deriva dal verbo inglese “to mob” (assalire con violenza) e consiste in una serie di condotte aggressive poste in essere in modo mirato, sistematico e prolungato nei confronti del dipendente, finalizzate a vessarlo, isolarlo e umiliarlo escludendolo progressivamente dal contesto aziendale che determina una lesione della salute, della identità o della dignità del lavoratore.
Il mobbing è una figura oramai pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, sebbene il fenomeno non sia stato ancora positivizzato dal Legislatore.
Le condotte in grado di integrare il mobbing possono essere le più diverse.
Ad ogni modo, gli episodi più comuni di mobbing sono rappresentati da provvedimenti disciplinari ingiusti, trasferimenti ingiustificati del dipendente da una sede ad un’altra senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’art. 2103 c.c., emarginazione o isolamento del lavoratore, demansionamento o svuotamento delle mansioni, continuo sovraccarico di lavoro e molestie sessuali.
Mobbing orizzontale e mobbing verticale
Esistono vari tipi di mobbing, in base ai soggetti coinvolti e alla loro posizione nella gerarchia dell’azienda o dell’ufficio, è possibile individuare:
- mobbing verticale, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra:
- mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima (c.d. “bossing”);
- mobbing ascendente, quando viceversa è un lavoratore di livello più basso ad attaccare un soggetto a lui sovraordinato;
- mobbing orizzontale, quando la condotta mobbizzante è posta in essere da uno o più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.
Gli elementi costitutivi
Come chiarito in diverse occasioni dalla giurisprudenza (ex multis: Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014) rappresentano elementi costitutivi del mobbing:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della integrità psico-fisica e/o nella dignità del dipendente;
- il nesso di causalità tra la condotta vessatoria e il pregiudizio subito dalla vittima;
- l’elemento soggettivo consistente nell’intento persecutorio.
Il diritto al risarcimento del danno contrattuale
Nel caso del c.d. mobbing, ad essere inadempiuta è l’obbligazione gravante in capo al datore di lavoro ex art. 2087 c.c. che lo obbliga ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Quanto alla ripartizione dell’onere della prova, per orientamento giurisprudenziale ormai costante grava sul lavoratore vittima di mobbing l’onere di provare la sistematicità della condotta del datore di lavoro e la sussistenza di un intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (da ultimo: Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 21328/2017.
In altre parole, per far valere la responsabilità contrattuale del proprio datore di lavoro, il lavoratore vittima di mobbing dovrà indicare e provare i comportamenti vessatori subiti, tali da rendere “nocivo” l’ambiente di lavoro, dando altresì prova del danno patito e del nesso causale fra tale danno e le condotte mobbizzanti. Per andare esente da responsabilità, il datore di lavoro dovrà invece dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili (Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 2038/2013).
Danno da dequalificazione professionale e demansionamento
Ulteriore voce autonoma di danno che solitamente accompagna i casi di mobbing è poi il cd. “danno da dequalificazione professionale” e/o da “demansionamento“.
Si tratta di un danno solitamente non patrimoniale consistente nella lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro con incidenza sulla vita professionale dell’interessato, che può avere anche una incidenza patrimoniale qualora il lavoratore subisca anche un impoverimento della capacità professionale acquisita o la mancata acquisizione di una maggiore capacità (Cass. Sez. Un., n. 6572/06).