Il referendum, proposto da Cgil sul Jobs Act, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 23 marzo, aveva quale obiettivo principale il ripristino della possibilità di essere reintegrati nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, per tutte le aziende da 5 a 15 dipendenti, così come previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Tale norma, infatti, stabiliva che il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, ovvero intimato in concomitanza di matrimonio, in violazione dei divieti di licenziamento previsti per la tutela della maternità e paternità, o riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti”.

Il Jobs Act del 2015, invece, cancellava tale previsione, sostituendo l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore licenziato illegittimamente, con il mero pagamento di un indennizzo.

Il referendum sull’art. 18, però, non si farà. La Corte Costituzionale, infatti, ha dichiarato inammissibile il quesito proposto dal Cgil, relativo all’abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi. In attesa delle motivazioni di tale sentenza, i proponenti dichiarano di non volersi fermare di fronte al diniego, ma di valutare la possibilità di un ricorso alla Corte Europea.

Il secondo quesito posto dalla Cgil ha, invece, lo scopo di abrogare i “voucher”, ovvero i buoni per il lavoro accessorio, largamente utilizzati dal momento della loro nascita, avvenuta con la Riforma Biagi. La Consulta, su tale punto, ha dato il via libera al referendum.

Lo stesso per quanto riguarda il terzo quesito inerente l’abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti. La Cgil, infatti, punta ad abrogare le leggi che limitano la responsabilità di appaltatore ed appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore, al fine di reintrodurre la responsabilità in solido tra le due parti, così come previsto originariamente dal D.lgs 276/2003.

Lo scopo è quindi quello di affermare una tutela reale dei trattamenti dei lavoratori impiegati negli appalti sia pubblici che privati, reintroducendo il principio secondo cui “il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto d’appalto.

Tutti i soggetti che intervengono nel contratto d’appalto, ovvero appaltatore, committente e subappaltatore, secondo quanto auspicato con la proposizione del predetto quesito referendario, quindi, dovrebbero essere coinvolti nel controllo e rispetto del versante salariale e contributivo del lavoratore, con le conseguenti responsabilità in merito.

Fonte:

Art. 18 L. 300/1970;

L. 183/2014