
Il diritto di prelazione
Il diritto di prelazione può essere definito come il diritto, attribuito dalla legge o dalla volontà delle parti, ad un soggetto (detto “prelazionario”) di essere preferito a terzi nella stipulazione di un determinato contratto, qualora un altro soggetto (detto “promittente”) decida di stipulare il contratto stesso.
Dal diritto di prelazione scaturiscono due obbligazioni. La prima obbligazione ha carattere negativo o di non fare ossia il divieto, a carico del promittente, di stipulare il contratto con soggetti diversi dal prelazionario senza averlo prima informato o, avendolo interpellato, senza averne atteso la risposta nel termine all’uopo fissato; la seconda obbligazione ha invece carattere positivo o di fare e consiste nel compiere la c.d. denuntiatio, la dichiarazione contenente la proposta contrattuale, in seguito alla quale il prelazionario potrà decidere se esercitare o meno il diritto di prelazione.
La clausola di prelazione costituisce uno standard negli statuti societari ed è espressione delle norme che nelle società di capitali disciplinano i limiti alla circolazione delle partecipazioni.
In particolare, in tema di società per azioni, l’art. 2355- bis. c.c. e, in tema di società a responsabilità limitata, l’art. 2469 c.c.
Con la clausola di prelazione si intende impedire che la compagine sociale si modifichi mediante l’ingresso di nuovi soci. Con essa il socio che intende trasferire la propria partecipazione è obbligato ad informare gli altri soci della volontà di cedere la propria quota o le proprie azioni e a preferirli, a parità di condizioni, al terzo potenziale acquirente.
Efficacia reale della prelazione statutaria
La Giurisprudenza maggioritaria riconosce alla clausola di prelazione un’efficacia reale, essendo tale clausola opponibile erga omnes (da ultimo: Tribunale Milano, Sez. spec. in materia di imprese, 27/05/2021).
Ciò significa che in caso il socio uscente abbia ceduto la propria quota a terzi in violazione del diritto di prelazione, la società e i soci pretermessi hanno il diritto di contestare l’efficacia del contratto di trasferimento nei confronti della società stessa e così rifiutare di riconoscere la qualità di socio al terzo acquirente.
L’opponibilità erga omnes deriva dal fatto che, essendo la clausola di prelazione scritta nello statuto della società e quest’ultimo pubblicato in camera di commercio, è legittimo opporre al terzo acquirente l’inefficacia del trasferimento per violazione del contratto societario.
Tuttavia, il contratto di trasferimento della partecipazione sociale concluso tra il socio uscente ed il terzo acquirente concluso in violazione della prelazione societaria rimane valido ed efficace, motivo per cui ai soci pretermessi e alla società non resterà altro che disconoscere la qualità di socio del terzo acquirente e agire per il risarcimento dei danni nei confronti del socio uscente.
La partecipazione pertanto resterà in proprietà del terzo sulla base di un contratto valido, ma non essendo opponibile alla società, impedirà all’acquirente di acquisire la qualità di socio della società.
Il socio uscente, dal canto suo, conserverà i suoi diritti che potranno perfino essere esercitati dal terzo acquirente in virtù di una delega assembleare.
La decisione
In linea con quanto finora esposto risulta quanto deciso di recente dal Tribunale di Milano, che si pone in linea di continuità con l’indirizzo maggioritario in materia, afferma che: “La clausola di prelazione, se inserita nello statuto, acquisisce un’efficacia reale e, in quanto tale, è opponibile anche al terzo acquirente. La sua violazione, tuttavia, non importa la dichiarazione di nullità o di inefficacia assoluta dell’atto, bensì la sola inefficacia relativa di quest’ultimo, invocabile alternativamente dalla società (da parte del relativo organo amministrativo) o contro di essa (da parte dei soci pretermessi). La realità della clausola, inoltre, non importa l’attribuzione di un potere di riscatto in capo ai soci pretermessi, la cui tutela si arresta sul piano risarcitorio. Il danno, peraltro, non può ritenersi sussistente in re ipsa, gravando sul socio l’onere di provare tanto il pregiudizio subìto, quanto il nesso di causa con la violazione stessa” (Tribunale Milano, Sez. spec. in materia di imprese, 27/05/2021).
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