Il mobbing
Quando si parla di mobbing si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.
In base ai soggetti coinvolti e alla loro posizione nella gerarchia dell’azienda o dell’ufficio, è possibile individuare diverse tipologie di mobbing:
1) mobbing verticale: quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra mobbing discendente (o bossing), quando i comportamenti aggressivi e vessatori vengono realizzati dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima e mobbing ascendente, quando invece i comportamenti aggressivi e vessatori vengono realizzati da un sottoposto nei confronti di un superiore gerarchico;
2) mobbing orizzontale, quando la condotta mobbizzante è posta in essere da uno o più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.
Gli elementi costitutivi e l’onere della prova a carico della vittima
In particolare, gli elementi costitutivi del mobbing sono:
1) l’elemento oggettivo: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro, del superiore gerarchico o dei colleghi ed il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;
2) l’elemento soggettivo: l’intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.
Per quanto riguarda l’onere probatorio, nell’ ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno e per mobbing, spetta a quest’ultimo provare l’esistenza di comportamenti vessatori o intimidatori, ripetuti e costanti, diretti nei suoi confronti, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali comportamenti sussiste, per il datore di lavoro, l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno (vedi Corte Cass., ordinanza n. 29767/2020).
Dal punto di vista probatorio per la vittima di mobbing è assai difficile dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi del mobbing, sia con riguardo all’elemento oggettivo della continuità delle condotte vessatorie sia con riguardo all’elemento soggettivo dell’intento persecutorio.
la giurisprudenza ha pertanto elaborato la figura dello straining al fine di evitare che i comportamenti isolati, che esulano dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo ma che comunque cagionano un danno all’integrità psico-fisica della vittima, restino impuniti.
Lo straining quale foma di “mobbing attenuato”
Lo straining può essere definito come una forma di “mobbing attenuato” poichè dotato di un grado di conflittualità lavorativa di minor intensità rispetto al mobbing ma, comunque, fonte di responsabilità del datore di lavoro a titolo contrattuale ed extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c..
Si tratta di una condizione psicologica posta a metà strada tra il mobbing e il semplice stress occupazionale, che si configura quando vi siano comportamenti stressogeni che producono effetti dannosi permanenti nel tempo, scientemente attuati nei confronti di un dipendente, «anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero e distanziate nel tempo» (Cass. Civ., Sez. lav., n. 15159/2019; n. 18164/2018).
Nello straining, a differenza del mobbing, non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie poiché tale figura è caratterizzata dall’istantaneità dell’evento: il comportamento scorretto del datore di lavoro può esaurirsi in un unico episodio isolato che genera un disagio nel lavoratore, oppure può attuarsi tramite più azioni anche tra loro scollegate.
Alcune pronunce recenti hanno ritenuto configurabile lo straining anche in assenza di prova dell’elemento soggettivo dell’intento persecutorio delle condotte vessatorie.
In sostanza, il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno più tenue «anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio» (Cass. Civ., Sez. lav., n. 3291/2016; n. 7844/2018; n. 18164/2018; n. 24883/2019).
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