Patto di non concorrenza e nullità delle clausole rimesse al mero arbitrio del datore di lavoro

Il patto di concorrenza può essere definito come un patto mediante il quale il datore di lavoro, per proteggersi da un’eventuale concorrenza da parte dell’ex dipendente, può prolungare gli obblighi di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. imposti a quest’ultimo durante il rapporto di lavoro per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

Tale patto, che può essere stipulato al momento dell’assunzione, durante lo svolgimento del rapporto lavorativo o al termine dello stesso, costituisce un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive autonomo e distinto rispetto all’accordo principale.

In particolare, la violazione del patto di non concorrenza costituisce un inadempimento contrattuale e legittima le richieste di adempimento o di risoluzione del contratto e/o di risarcimento del danno.

La norma di riferimento

Come espressamente previsto dall’art. 2125 c.c.: “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una misura maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

La questione

Al fine di raggirare le conseguenze previste dalla legge in caso di violazione del patto di non concorrenza, nella prassi si è diffusa la tendenza ad inserire in tale patto clausole che garantiscano al datore di lavoro la possibilità di sciogliersi unilateralmente dal vincolo recedendo dallo stesso, nel momento in cui ritengano più pericolosa la concorrenza dell’ex prestatore di lavoro e dunque non siano più interessati a corrispondere a quest’ultimo il corrispettivo pattuito. Sorge allora la presente questio iuris: validità o invalidità delle clausole inserite nel patto di non concorrenza e rimesse al mero arbitrio del datore di lavoro?

La decisione

Interpellata recentemente sulla questione relativa alla sorte delle clausole contenute nel patto di non concorrenza che prevedano il diritto al recesso unilaterale del datore di lavoro nell’ipotesi in cui tale patto sia valutato non più conveniente, la Suprema Corte ha fornito una risposta rigorosa, accertando la nullità di siffatte clausole per contrarietà a norme imperative (Cass. n. 23723/2021).

Per la Corte di Cassazione, infatti, tale prassi deve ritenersi illegittima in quanto in violazione della libertà economica dell’ex dipente, il quale, in caso contrario, subirebbe una ingiustificata riduzione delle occasioni economiche offerte dal mercato.

Tale conclusione, infatti, consente di evitare, da un lato, che al datore di lavoro sia attribuito il potere di decidere unilateralmente la durata del vincolo, sì da vanificare la previsione della fissazione di un termine certo; dall’altro, che l’attribuzione patrimoniale pattuita a favore del lavoratore in merito all’obbligo di non concorrenza possa venire meno in forza della sola volontà del datore di lavoro