Secondo quanto stabilito dall’art. 2125 c.c., “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, tempo e di luogo”. Per quanto riguarda uno dei requisiti essenziali del patto di concorrenza, ovvero il corrispettivo, anche se la sua determinazione è lasciata all’autonomia privata, è necessario valutare se lo stesso possa ritenersi o meno congruo rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore, in relazione al vincolo di oggetto, territorio e durata.

La Corte di Cassazione, sul punto, prevede che non solo la mancata previsione di un corrispettivo all’interno del patto di non concorrenza determini la nullità di quest’ultimo, bensì anche la previsione di meri compensi simbolici o manifestamente iniqui e sproporzionati in rapporto alla rinuncia richiesta al lavoratore ed alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che tale comportamento rappresenti per il datore di lavoro. Affinchè un patto di concorrenza possa ritenersi valido e legittimo, quindi, in riferimento al corrispettivo pattuito in sede contrattuale, quest’ultimo non potrà essere ragguagliato ad una cifra irrisoria, ma dovrà essere valutato congruamente in relazione al sacrificio imposto al lavoratore, alla sua retribuzione, al livello professionale raggiunto, ad i minori guadagni che questo potrà realizzare ed alle maggiori spese che dovrà effettuare per modificare il luogo di lavoro o per acquisire una nuova professionalità.

Autorità: Cassazione civile

Data: 26/11/1994

Numero: 10062