
Con sentenza n. 302 del 24/04/2025, la Corte d’Appello di Milano ha affermato un importante principio in tema di licenziamento per giusta causa, ritenendo legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, il quale aveva utilizzato in maniera impropria dati sensibili di cui era venuto a conoscenza nell’esercizio della sua attività lavorativa.
I fatti
Nel caso oggetto della pronuncia della Corte d’Appello, il lavoratore in questione era addetto, nella sezione amministrativa della società presso cui lavorava, alla gestione della posta interna, nonché allo smistamento e selezione della corrispondenza destinata ai vari uffici. Durante lo svolgimento della propria attività lavorativa, l’attenzione del dipendente de quo era stata richiamata dal curriculum vitae che una candidata aveva inviato presso l’azienda. Il dipendente, appuntatosi il numero di telefono della candidata, aveva in seguito deciso di contattare quest’ultima inviandole una serie di messaggi Whatsapp. In seguito, il dipendente riceveva una contestazione disciplinare da parte della datrice, per il fatto di avere intercettato il curriculum della candidata, per averne illegittimamente acquisito il numero di cellulare privato e per aver inviato a quest’ultima una serie di messaggi. La società, specificando come la condotta tenuta dal dipendente risultasse fortemente lesiva di norme, leggi e regolamenti in materia di privacy, aveva deciso il licenziamento per giusta causa dello stesso.
Il giudizio di primo grado
Successivamente, il lavoratore licenziato aveva adito il Tribunale di Milano impugnando il licenziamento per giusta causa, sostenendo che la condotta dallo stesso posta in essere non avesse disvalore tale da giustificare il licenziamento, ma tuttalpiù una sanzione conservativa. Il Giudice di primo grado aveva ritenuto legittimo il licenziamento del ricorrente, affermando che l’uso dei dati personali della candidata effettuato dal lavoratore, in quanto soggetto adeguatamente formato in materia di privacy e consapevole del trattamento da riservare agli stessi, si rivelava incompatibile con il permanere del vincolo fiduciario sul quale il rapporto di lavoro stesso si fonda, e dunque tale da poter costituire giusta causa di licenziamento.
La pronuncia della Corte d’Appello
In seguito, il dipendente aveva impugnato la sentenza di primo grado davanti alla Corte d’Appello di Milano, sostenendo che nessuna violazione era stata dal lui commessa, dal momento che non aveva divulgato il numero di cellulare della candidata a terzi, ma si era “limitato” a brevi messaggi telefonici immediatamente sospesi allorché la destinataria aveva intimato l’immediata cessazione della molestia. Richiamando precedente e consolidata giurisprudenza di legittimità, la Corte d’Appello ha innanzitutto ritenuto doversi accertare se “ la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’ intensità dell’elemento psicologico dell’agente, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente“. Nello specifico, la Corte d’Appello ha individuato una serie di profili di particolare gravità caratterizzanti la condotta dell’appellante, ovvero il fatto quest’ultimo avesse ricevuto una specifica formazione in materia di privacy (attraverso la partecipazione a periodici corsi di aggiornamento) e pertanto fosse ben consapevole dell’illiceità della condotta posta in essere. La Corte d’Appello ha quindi ritenuto che “La specificità della mansione e la durata ultraventennale del rapporto di lavoro alle dipendenze dalla società rendono ancor più intollerabile la condotta posta in essere dal dipendente. A nulla rileva, quindi, ai fini della valutazione della proporzione della sanzione irrogata, l’avere il lavoratore ammesso il fatto e l’avere impiegato il numero di telefono della candidata per soli fini personali senza divulgarlo a terzi”. Pertanto, la Corte d’Appello ha ritenuto le violazioni poste in essere dal lavoratore molteplici, gravi e tali da integrare giusta causa di recesso. Alla luce delle summenzionate considerazioni, la Corte d’Appello di Milano ha respinto l’appello confermando così la sentenza di primo grado.
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