Contratto di appalto “genuino” ed interposizione illecita di manodopera

In tema di contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, una questione frequentemente oggetto di contenzioso ha riguardo alla distinzione tra appalto “genuino” ed interposizione illecita di manodopera, fenomeno che può essere definito come una mera attività di fornitura di personale, caratterizzato dalla dissociazione tra la figura del datore di lavoro formale e quella dell’effettivo utilizzatore della manodopera. Tale fenomeno si connota per la presenza un soggetto interponente che, pur di soddisfare una propria esigenza tecnica e ricevere una determinata prestazione lavorativa, è disposto a versare un corrispettivo al soggetto interposto per avvalersi dei lavoratori di quest’ultimo.

La normativa di riferimento

Come noto, l’art. 1655 c.c. descrive l’appalto come un contratto attraverso il quale una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro.

L’art. 29 del D. Lgs. N. 276 del 2003, invece, individua i criteri distintivi tra appalto genuino ed interposizione illecita di manodopera, ovvero:

  1. organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore;
  2. esercizio, da parte dell’appaltatore, del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto;
  3. assunzione del rischio di impresa.

Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un appalto genuino di opere o servizi è necessario verificare che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato autonomo, da conseguire attraverso una effettiva ed autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo dei propri dipendenti, impiego di propri mezzi ed assunzione del rischio di impresa. Deve, invece, ravvisarsi una interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo ed organizzativo sia interamente affidato al committente (Cass. 12551/2020).

L’esercizio del potere organizzativo e direttivo da parte dell’appaltatore

L’esercizio del potere organizzativo e direttivo da parte dell’appaltatore è uno degli indici più importanti e più frequentemente utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità per distinguere l’appalto genuino dall’interposizione illecita.

La Corte di Cassazione, infatti, in più occasioni ha avuto modo di precisare come l’esercizio da parte del committente del potere di orientare la prestazione dei dipendenti dell’appaltatore alla realizzazione del proprio interesse, potere espressamente previsto dall’art. 1662 c.c. ai sensi del quale il committente ha diritto di procedere alla “verifica nel corso dell’esecuzione dell’opera”, non escluda di per sé la sussistenza di un appalto genuino. Secondo la Suprema Corte, inoltre, non configura di per sé intermediazione illecita di manodopera nemmeno l’indicazione analitica da parte del committente dei tempi e delle modalità operative del servizio concesso in appalto  (Cass. 15557/2019).

In sostanza, ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento non è sufficiente la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore: occorre verificare se tali disposizioni siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto. Il potere direttivo, infatti, deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative, sia pure considerando la specificità dell’incarico conferito e le modalità della sua attuazione (Cass. 12413/2021).

L’organizzazione dei mezzi necessari

Anche l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore va valutato tenendo conto che l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione del committente non necessariamente è indice di non genuinità dell’appalto.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, non sussiste interposizione illecita quando, nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte del committente, sia verificabile un rilevante apporto da parte delll’appaltatore mediante conferimento di capitale, know-how, software ed in genere beni immateriali aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto (Cass. 31127/2021).

Pertanto, mentre nei c.d. appalti pesanti il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato quantomeno nell’organizzazione dei mezzi, nei c.d. appalti leggeri, nei quali l’attività si risolve prevalentemente nella prestazione lavorativa, è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti.

In altre parole, secondo la Suprema Corte negli appalti c.d. “ labour intensive” o anche “dematerializzati” gli strumenti e le macchine forniti dall’appaltante non sono elementi di per sé decisivi per la qualificazione del rapporto lavorativo in termini di appalto o di interposizione fittizia di manodopera, ben potendo l’appaltatore mettere a disposizione la sua professionalità a prescindere dalla proprietà di macchine ed attrezzature, dovendosi invece ritenere predominante la mera organizzazione dei dipendenti e della prestazione lavorativa in funzione del risultato previsto rispetto alla titolarità degli strumenti di lavoro (Cass. 21413/2019)