L’art. 20 del Codice della proprietà industriale (D.lgs n. 30/2005) stabilisce che “I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di fare un uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica: – un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; – un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; – un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.”

Quando l’imitatore si ponga sulla scia del concorrente in modo sistematico e continuativo, sfruttando la creatività e avvalendosi delle idee e dei mezzi di ricerca e finanziari altrui, si può però parlare di concorrenza “parassitaria”, di cui all’art. 2598 n. 3 c.c. Secondo tale disposizione, infatti, compie atti di concorrenza sleale chiunque si valga direttamente o indirettamente di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

Questa modalità di concorrenza si realizza attraverso una pluralità di atti che, pur isolatamente leciti, se valutati nel loro insieme, costituiscono un illecito, in quanto consistenti nell’imitazione sistematica di tutte (concorrenza parassitaria sincronica) o di singole (concorrenza parassitaria diacronica) iniziative del concorrente, a breve distanza di tempo.

Nel caso di specie, relativo al noto brand di abbigliamento Newyorkese “Supreme”, la società “parassita” utilizzava non solo l’identico segno distintivo della società concorrente per la medesima tipologia di prodotti, ma, altresì, riprendeva i medesimi elementi decorativi negli stessi, nonché le medesime immagini pubblicitarie e modalità di promozione pubblicitaria, in modo da ingenerare la convinzione della sussistenza di un collegamento, se non addirittura di una identità, con l’attività ed i prodotti della società concorrente.

Il Tribunale di Milano, adito dalla società “parassita” al fine di revocare l’ordinanza con la quale si inibiva la stessa dalla produzione, esportazione e commercializzazione di capi d’abbigliamento e di ogni altro prodotto recante il marchio concorrente, nonché dall’uso del nome a dominio su internet, oltre al ritiro dal commercio dei prodotti recanti il predetto marchio, rigettava il reclamo così proposto.

Secondo i Giudici di primo grado, infatti, l’illiceità della condotta posta in essere dalla reclamante sussisteva prima facie, sia con riguardo alla contraffazione di marchi ex art. 20 C.p.i, sia relativamente alla concorrenza sleale parassitaria di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., in quanto non solo il segno utilizzato ed anteriormente registrato dalla concorrente era del tutto sovrapponibile a quello utilizzato dalla reclamante, ma altresì la ripresa pedissequa di molteplici, identiche iniziative imprenditoriali, da parte di quest’ultima, integrava la fattispecie di concorrenza sleale “parassitaria”.

Fonti:

Tribunale Milano, 20.04.2017;

Art. 20 D.lgs 30/2005;

art. 2598 c.c.